Massimo Servadio
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C'è però il rischio di un gap generazionale, che la rivoluzione digitale
non ha fatto altro che accrescere.
Eppure, dal modo in cui si compongono le differenze tra le varie
generazioni dipende il futuro delle imprese; perché gestire la diversità
generazionale è uno strumento di crescita, un valore aggiunto che si
rivelerà particolarmente strategico durante il passaggio generazionale.
A tal proposito, va rilevato che, sempre più spesso, si cerca di
classificare i lavoratori in macro generazioni legate all’anno di nascita e al
periodo storico vissuto. Secondo molti studi, infatti, l’esser nati in un certo
momento storico influenza in modo più o meno determinante il proprio
modo di pensare agire e di comunicare all’interno della società e del
mondo del lavoro.
Si tratta, di fatto, di generalizzazioni che non potranno mai eliminare le
differenze individuali, ma che possono comunque tornare utili come
strumento euristico informativo di varie realtà aziendali.
Le generazioni alle quali faccio riferimento sono:
i tradizionalisti o “generazione silente”;
i “baby boomers”;
la “generazione X”;
la “generazione Y”;
la “generazione Z”.
La “generazione silente”
I lavoratori over 60, ovvero la cosiddetta “generazione silente”,
contraddistinti da un alto senso del dovere, vivono secondo i valori che
hanno imparato negli anni del dopoguerra e sono rimasti fedeli a solo uno,
o due datori di lavoro in tutta la loro carriera, nutrendo un forte rispetto per
l’autorità e le regole.
Sul lavoro prediligono la comunicazione faccia a faccia o formale
scritta.
I “baby boomers”
I boomers, nati tra la metà degli anni Quaranta e la metà degli anni
Sessanta, sono caratterizzati da una forte etica del lavoro.
È la generazione delle rivoluzioni culturali: credono nella crescita
personale, nel duro lavoro e nell’uguaglianza dei diritti.
Essi rappresentano il cuore dell’attuale alto management.